I Nomadi Digitali non Sono la Causa della Gentrificazione e dell’Overtourism

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Ho vissuto abbastanza a lungo da nomade digitale per vedere questo stile di vita nascere, crescere ed evolversi. Dieci anni fa ci chiamavano pionieri. Oggi, invece, ci additano come colpevoli di tutto: della gentrificazione, dell’overtourism, dell’aumento degli affitti, perfino della sparizione delle culture locali. Come se viaggiare con un laptop e un biglietto di sola andata bastassero a stravolgere intere città.

Ma è davvero così? Davvero noi nomadi digitali siamo la radice dei problemi urbani del mondo? O stiamo semplicemente pagando il prezzo di essere visibili in un sistema che aveva già deragliato ben prima del nostro arrivo?

Da viaggiatore che ha vissuto questa trasformazione dall’interno, voglio condividere una prospettiva più sfumata su un fenomeno molto complesso che merita un’analisi onesta.

Il bersaglio perfetto

Negli ultimi anni, testate e social hanno iniziato a raccontare storie sempre più dure: “I nomadi digitali stanno distruggendo Città del Messico”, “Bali non ne può più dei nomadi digitali”, “Lisbona affonda sotto il peso degli expat”. Il messaggio che si fa passare è sempre lo stesso: giovani occidentali nei caffè a lavorare da remoto, coworking con vista, affitti che esplodono, famiglie locali che vengono cacciate dai centri delle città.

E ammettiamolo: c’è una piccola parte di verità. Quando arrivi con uno stipendio europeo o americano in un Paese dove il salario medio è cinque o dieci volte più basso, puoi permetterti cose che un locale non può. Un nomade digitale medio guadagna sensibilmente più dei residenti locali e quindi può permettersi affitti più alti, contribuendo a far salire i prezzi se il mercato è già teso. Io stesso ho abitato in quartieri dove, nel giro di un anno, il prezzo degli affitti è raddoppiato, se non addirittura triplicato.

Ma confondere l’effetto con la causa è un errore comune. E pericoloso.

Noi nomadi digitali ci inseriamo spesso in un meccanismo già in atto. Arriviamo nei quartieri che sono già appetibili, dove c’è già una bolla, una scena, un’infrastruttura. E sì, portiamo soldi. Ma siamo una goccia in un oceano di dinamiche molto più grandi.

Gentrificazione: le vere radici del problema

La gentrificazione è un processo complesso, che affonda le radici in decenni di speculazione immobiliare, assenza di politiche abitative pubbliche, liberalizzazione degli affitti, Airbnb selvaggio e turismo di massa. Quando i governi aprono le porte agli investitori stranieri, quando svendono i centri storici, quando ignorano i bisogni dei residenti… è lì che il problema nasce.

Guardando più a fondo, emergono tre fattori strutturali ben più determinanti:

  1. Il turismo di massa low-cost

L’overtourism nasce ben prima del boom del lavoro da remoto. Barcellona, per esempio, ha accolto più di 15 milioni di turisti l’anno già nel 2019, molti dei quali arrivavano con voli low cost e si fermavano per pochi giorni.

Un simile assalto sovraccarica i centri storici e alza il costo della vita locale. In confronto, i nomadi digitali sono pochi: nell’ordine di alcune migliaia al mese in città come Barcellona o Lisbona.

  1. Speculazione immobiliare e piattaforme di affitti brevi

La gentrificazione urbana era in atto ben prima del fenomeno dei nomadi. Molti centri storici sono stati trasformati da investimenti immobiliari e affitti brevi turistici, riducendo l’offerta per i residenti. Piattaforme come Airbnb hanno incentivato i proprietari a destinare le case ai visitatori temporanei, facendo salire i canoni.

A Lisbona, dal 2015 i prezzi degli immobili sono schizzati alle stelle. Ma non per colpa dei nomadi digitali. Il governo ha introdotto i famigerati “Golden Visa” che danno diritto agli extra-europei che investono in un immobile ad avere residenza nel Paese. Grazie a questa residenza in tantissimi hanno usato le proprietà per affittarle su Airbnb. Da qui c’è stata un’esplosione di affitti brevi che ha tolto migliaia di appartamenti al mercato residenziale. Le aziende tech, le start-up, il turismo di massa hanno fatto il resto. E i nomadi digitali che sono arrivati sono stati coinvolti in una partita in cui erano comparse, non protagonisti.

  1. Politiche pubbliche miopi

In molti casi le città hanno abbracciato un modello di sviluppo basato sull’attrattività per capitali e turisti, trascurando gli effetti sui residenti. È ciò che l’urbanista Sarah Gainsforth chiama “gentrificazione transnazionale“, frutto di politiche che corteggiano un’élite mobile anziché tutelare chi vive stabilmente nei luoghi.

Molti governi – dal Portogallo al Messico – hanno favorito la gentrificazione offrendo appunto visti d’oro, sgravi fiscali e zero regole agli investitori stranieri. Città che hanno imposto tetti agli affitti e vincoli agli affitti brevi (come Berlino o Lisbona) sono riuscite a contenere gli effetti negativi, senza bisogno di puntare il dito contro un singolo gruppo di nuovi arrivati.

Overtourism: siamo parte del problema?

Sì e no.

È vero che la nostra presenza impatta. Ma confrontiamola con quella dei turisti “classici”. Un turista mordi e fuggi resta tre giorni, consuma molto, vive di servizi importati e raramente entra in contatto con la comunità. Un nomade digitale vive mesi, a volte anni, nello stesso luogo. Fa la spesa al mercato, paga una SIM locale, frequenta la gente del posto, magari prende lezioni di lingua o fa volontariato.

Io stesso, vivendo a Chiang Mai in Thailandia per mesi, ho stretto rapporti con persone del quartiere, ho partecipato a feste tradizionali, ho organizzato cene con gente del posto, ho supportato le piccole realtà nei mercati locali.

I nomadi digitali spesso diventano parte del tessuto sociale, non sempre turisti in senso classico. Eppure veniamo trattati come tali.

Il peso della visibilità dei nomadi digitali

Il vero problema è che siamo visibili. Siamo “altri”, e quando qualcosa non va – affitti alti, quartieri che cambiano – è facile puntare il dito contro chi ha l’accento diverso. Il razzismo sottile, l’ansia da perdita di identità, la paura del cambiamento… sono tutte emozioni legittime, ma spesso mal indirizzate.

A Medellín, dove ho vissuto a lungo, ho incontrato stranieri impegnati nel sociale, nel volontariato, nell’insegnamento. Eppure, nei social si parlava solo dei “gringos che fanno alzare i prezzi”. Nessuna menzione delle politiche economiche interne, della diseguaglianza storica, del boom immobiliare spinto dai capitali interni ed esteri.

Conosco bene i quartieri di Condesa e Roma, a Città del Messico, due quartieri ormai simbolo della “bolla expat”. Ma anche lì, la realtà è più complessa. Già prima dell’arrivo dei lavoratori da remoto, gli affitti erano in salita. Airbnb è esploso, e lo stato ha fatto poco o nulla per tutelare gli inquilini storici.

Bali, è un’isola magnifica, ma il problema principale non sono i nomadi digitali. Sono i milioni di turisti annuali che affollano le spiagge, sporcano, costruiscono resort, e poi spariscono. I nomadi digitali rappresentano una piccola percentuale, vivono spesso nei loro co-living o villaggi yoga, e spendono molto più responsabilmente nel territorio.

Da capro espiatorio a parte della soluzione

Puntare il dito verso i nomadi digitali trasformandoli in capri espiatori distoglie l’attenzione dalle cause profonde: le politiche urbane miopi, il turismo di massa low cost e le speculazioni immobiliari – che sono alla base sia della gentrificazione sia dell’overtourism.

Non sto dicendo che dobbiamo lavarci le mani. Abbiamo anche noi delle responsabilità.

Quando viaggiamo cerchiamo di:

  1. Scegliere consapevolmente dove viviamo. Ad esempio, preferire zone emergenti ma non ancora gentrificate, o piccole città secondarie rispetto alle capitali turistiche.
  2. Contribuire all’economia locale. Evitare catene globali, preferire i mercati, i piccoli negozi, i progetti locali, fare acquisti nei negozi di quartiere, mangiare in ristoranti gestiti da residenti e partecipare ad eventi culturali autentici.
  3. Imparare la lingua. Non solo per rispetto, ma perché ci aiuta a capire davvero dove siamo. Anche solo le basi per ordinare cibo, salutare e ringraziare fanno una grande differenza nella percezione locale.
  4. Capire quando è il caso di andar via. Se il posto è saturo, forse è tempo di cercare altrove. Il mondo è grande.
  5. Fare volontariato supportando progetti che possano migliorare le condizioni di vita delle popolazioni locali.

Non nemici, ma potenziali alleati

I nomadi digitali non devono diventare gli unici colpevoli. Serve che i governi facciano la loro parte. Serve una regolamentazione seria degli affitti brevi. Serve edilizia popolare, investimenti pubblici, e una strategia a lungo termine per rendere le città vivibili – per tutti, non solo per chi può permettersele.

Molti di noi sono disposti a contribuire. A educare, a costruire ponti, a sostenere le economie locali in modo autentico. Alcuni Paesi lo stanno capendo: stanno creando visti per nomadi digitali con condizioni chiare, tasse e contributi. È un modo intelligente per regolare senza demonizzare.

Se invece ci si limita a incolpare, senza creare strumenti per gestire il fenomeno… il risultato sarà una frattura sempre più grande tra residenti e “ospiti temporanei”. E nessuno ne uscirà vincitore.

Verso un futuro sostenibile

La soluzione non sta nell’alimentare una guerra tra residenti e nomadi digitali, ma nel mettere in campo politiche pubbliche intelligenti. Occorre regolare il mercato degli affitti (sia turistici che a medio termine), investire in alloggi accessibili e diversificare le economie locali oltre il turismo.

Credo che serva una nuova visione condivisa, dove nomadi digitali, residenti e istituzioni possano co-costruire il futuro delle città. Ecco alcune idee:

  1. Regolare in modo serio Airbnb e affitti brevi.
  2. Investire in edilizia popolare e servizi pubblici.
  3. Incentivare la presenza di nomadi digitali in zone meno turistiche.
  4. Educare i nomadi a comportamenti etici e sostenibili.

Demonizzarci è facile. Ma è solo una scorciatoia che non porta a niente. La verità è più scomoda e richiede una riflessione collettiva: su come vogliamo che siano le città del futuro, su chi ha diritto di viverci, su quali valori vogliamo tutelare.

Io continuerò a viaggiare. Ma sempre con rispetto, ascolto e consapevolezza.

Perché viaggiare non dovrebbe mai essere sinonimo di colonizzare.

Ma di incontrare, imparare, restituire.

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Immagine di Gianni Bianchini

Gianni Bianchini

Digital nomad mentor e content creator. Nomade digitale dal 2013, viaggio intorno al mondo a tempo indeterminato lavorando da remoto come blogger, youtuber, podcaster e fotografo.
CHI SONO

Sono Gianni Bianchini, digital nomad mentor e content creator. Nomade digitale dal 2013, viaggio intorno al mondo a tempo indeterminato lavorando da remoto come blogger, youtuber, podcaster e fotografo.

Grazie alla mia esperienza decennale, posso aiutarti ad essere libero e indipendente viaggiando intorno al mondo, scoprire e coltivare i tuoi talenti, migliorare le tue competenze e trasformarle in un business online.

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