Sono più di dodici anni che viaggio e lavoro da remoto vivendo da nomade digitale. Ho vissuto in oltre cinquanta paesi, ma tra tutti i luoghi che ho chiamato casa, il sud-est asiatico occupa un posto speciale nel mio cuore.
La Thailandia, il Vietnam, la Cambogia, la Malesia, l’Indonesia… sono terre dove ho trovato calore, spiritualità, semplicità e un senso del tempo che noi occidentali abbiamo dimenticato. Ma dopo così tanti anni in questa parte del mondo, devo ammettere che ci sono alcune verità, purtroppo scomode, che non possiamo più ignorare.
Quando viaggio in questa regione spesso parlo con i locali, chiedendo cosa ne pensano degli occidentali che arrivano nei loro Paesi e lavorano online. E quello che mi rispondono, guardandomi negli occhi con un misto di cortesia e stanchezza, è questo: molti di loro sono esausti.
Sono stanchi di certi atteggiamenti che continuano a ripetersi. Atteggiamenti che non solo danneggiano la relazione tra i nomadi digitali e le comunità locali, ma che lentamente erodono l’autenticità di questi luoghi magici.
Non scrivo per puntare il dito: anch’io ho commesso questi errori. Scrivo perché amo questi luoghi con tutto me stesso e credo che, se vogliamo viverli davvero, non basta trovare un alloggio a buon prezzo o sorridere a quella vecchietta al mercato. Serve molto di più. Serve il cuore.
La mentalità del “paradiso a basso costo”
Quante volte abbiamo sentito frasi come: “Con 1000 euro qui vivo come un re!” Ho visto migliaia di reel su Instagram che riducono un Paese intero a un menu scontato: “Pad Thai a 1 euro, massaggio a 5, bungalow in spiaggia per 10!”
Capisco l’entusiasmo, lo condivido. Anche io ho parlato così in passato e anche io ho scelto di viaggiare in questi posti per la qualità della vita, per l’equilibrio tra costi e bellezza. Ma quando continuiamo a ripetere all’infinito quanto sia tutto “cheap”, rischiamo di comunicare un messaggio sbagliato.
Per noi occidentali sono cifre basse. Ma per chi vive qui, quei numeri sono la realtà quotidiana, fatta di bollette, figli da mandare a scuola, mutui e sacrifici.
Non stiamo visitando un enorme outlet tropicale. E questi luoghi non sono costruiti per il nostro piacere economico. Sono case, sono vite, sono storie.
Superficialità culturale dei nomadi digitali
È facile scattare una foto a un monaco, comprare un incenso al tempio, assaggiare un piatto di street food e pensare di aver “vissuto la cultura”. Ma la verità è che troppi nomadi digitali si fermano alla superficie.
Ho incontrato persone che vivono per sei mesi a Chiang Mai senza sapere dire nemmeno “grazie” in thailandese. Che passano da una città all’altra come fossero sfondi per i social, senza mai chiedersi davvero cosa significhi essere parte di quella comunità.
Io stesso, dopo anni, ancora faccio fatica con le lingue locali. Ma almeno ci provo. Studio, faccio domande e, soprattutto, ascolto.
La cultura non è solo folklore e balli in costumi tradizionali, ma è anche identità. E ignorarla è come entrare in una casa senza togliersi le scarpe. Quando viaggi non fermarti alle apparenze, ma vai a fondo parlando con la gente del posto. Siediti, ascolta, impara.
L’arroganza del nomade digitale occidentale
Questo è il punto più difficile da toccare, ma forse il più importante. C’è un certo tipo di nomade digitale che arriva in Asia con un senso di superiorità nascosto. Magari non se ne rende nemmeno conto. Ma si comporta come se tutto gli fosse dovuto, solo perché sta pagando.
Si lamenta se il proprietario dell’alloggio non parla inglese, si arrabbia se deve rispettare regole locali, ignora volutamente limiti di visto o leggi sul lavoro, e spesso manca di rispetto alle persone e ai luoghi che visita.
Ma questo alla lunga crea fastidio nei locali e alza barriere che sono difficili da abbattere, anche per chi arriva con le migliori intenzioni.
Quando viaggiamo in un nuovo Paese cerchiamo di accettare e praticare le regole del luogo in cui ci troviamo. Noi siamo solo ospiti, e dovremmo avere rispetto sempre per chi ci ospita.
La comfort zone che ci portiamo dietro
Coworking con vista sulle risaie. Caffè con toast e avocado. Coliving pieni di content creator. Tutto bello. Ma se dopo tre mesi non hai parlato con un vicino, non hai mangiato a un ristorantino locale, non hai fatto amicizia con qualcuno fuori dalla community dei nomadi digitali… be’, qualcosa non va.
Molti nomadi digitali vivono in una bolla perfetta, fatta di comfort occidentale, in un luogo che di occidentale non ha nulla. E i locali li vedono e si chiedono: “Perché vengono qui se non interagiscono con noi?”
Il nomadismo digitale è immersione. Senza scambio, senza integrazione, ci trasformiamo solo in turisti cronici.
Il party che non finisce mai
Phuket, Bali, Bangkok, Koh Phangan, Saigon. Tutte mete vendute anche come paradisi del divertimento. Ma la festa continua che non è vissuta con rispetto lascia solo macerie.
Ho visto nomadi digitali rompere mobili in un hotel con comportamenti fuori controllo. Ubriacarsi ogni sera. Ignorare completamente codici culturali: entrare nei templi in costume da bagno e flip-flop, fumare nei mercati, fare rumore di notte in quartieri dove dormono bambini.
La libertà non è assenza di regole, ma responsabilità consapevole. E se hai questi comportamenti, devi sapere che la tua festa è il disagio di qualcun altro.
Il complesso del nomade digitale “salvatore”
Un altro errore diffuso è l’atteggiamento del “vengo ad aiutarvi”. Alcuni arrivano e iniziano a dare consigli non richiesti ai ristoratori, ai tassisti, ai venditori. Spiegano come “migliorare il marketing del ristorante”, come “ottimizzare la gestione”, come “vendere di più”.
Ma nessuno ha chiesto niente. E spesso, quella che chiamiamo “condivisione” è in realtà arroganza mascherata da buone intenzioni.
Le culture asiatiche non hanno bisogno di essere salvate. Hanno bisogno di essere riconosciute, apprezzate, ascoltate.
Vivere davvero, non solo abitare
Non tutti i nomadi digitali sono così. E non tutti i locali sono perfetti. Ma una cosa è certa: c’è una stanchezza che cresce. Stanchezza verso l’indifferenza, la superficialità, la pretesa.
Se vogliamo continuare a vivere in questi paesi, dobbiamo cambiare prospettiva. Non basta venire per il sole e il Wi-Fi. Serve cuore, serve un po’ di umiltà, ma soprattutto serve attenzione e cura.
Impara la lingua, anche solo poche parole. Rispetta le tradizioni. Ascolta. Smettila di trattare questi luoghi come se fossero scontati solo per te, o come se fossero un parco dei divertimenti. E cerca di connetterti davvero con le persone.
Perché la libertà non vale nulla se arriva a scapito degli altri. E vivere da nomadi digitali significa anche portare con sé il senso della responsabilità, non solo quello dell’avventura.
Siamo cittadini del mondo, non semplici passanti. E ogni luogo che ci accoglie merita rispetto, ascolto e presenza autentica.
Io ho scelto di viaggiare non solo per scoprire il mondo, ma per imparare a farne parte in modo più umano. E tu, come vuoi vivere da nomade digitale?